Di Maia
Potenzialmente qualsiasi oggetto, persona o evento può essere vissuto come pericoloso e quindi indurre una emozione di paura, ossia uno stato emotivo di diverse intensità, una forte spiacevolezza e un intenso desiderio di evitare l’oggetto o la situazione pericolosa.
Quando penso alle mie, di paure, penso a disastri, a catastrofi, a gravi incidenti; ma sono puro oggetto di fantasia, invenzioni realistiche, emozioni che si trasformano in ansia.
Pensando anche alle ripercussioni che si hanno, rispetto al danno subito, paragonare le mie paure alle calamità naturali, alle guerre, alle ingiustizie, è un azzardo assai grande. Ma ci provo, se non altro per esorcizzare l’ansia.
Ed eccomi, che supplico mio marito a non correre sulla statale 554 : ”Mi pare quasi che la macchina si frantumi in mille pezzi”. Aiutooooo!?!? E’ una cosa che mi spaventa tanto, anche se lui in realtà non va poi così veloce.
E così mi vengono in mente i migranti che attraversano il mare, coi mille pericoli che già sappiamo, dall’Africa a Lampedusa. Penso allo sguardo spento e assente di un padre che ha abbandonato la mano di suo figlio perché ha dovuto scegliere tra la sua vita e la morte. A un bimbo in braccio a sua madre, entrambi soccorsi e salvati dalle onde alte che li sommergevano.
E intanto mi sembra che a casa mia, il fuoco acceso faccia crollare la cappa del camino: ”Credo che la fiamma sia troppo alta e prenda fuoco la canna fumaria”. Ma perché aver paura se so che è un’esagerazione?
Così mi vengono in mente i terremotati, sorpresi alla sprovvista nell’eterna notte, i dispersi e salvati, ma spogliati della loro dignità: la casa, il lavoro, i parenti e gli amici, la loro terra.
Ma ecco la mia pentola che bolle e forse è troppo piena, non so, potrebbe cadere dell’acqua, spegnere il gas, riempire la stanza ed esplodere. Cosa saranno questi pensieri catastrofici?
Come non far riferimento ai senzatetto, abbandonati in un marciapiede con i loro cani che li confortano, li scaldano e leccano le loro ferite di un tempo remoto. Alla fame che morde e supplica l’elemosina.
In un sistema economico globale dominato dal profitto, si sono create schiavitù disumane. Donne costrette a prostituirsi, adulti e minori vittime di espianto di organi, vendita di stupefacenti, gruppi terroristici.
Mentre io sto qui nella mia casetta, quasi protetta e in sicurezza, innalzo le mura dell’indifferenza, sicura che le mie paure là dentro sono vane. Per nascondermi nell’ipocrisia e nell’egoismo.
Pensando a quanto sia bella la libertà, ricordo che da qualche parte c’è qualcuno che sta dietro le sbarre: luoghi di detenzione che non rieducano e dove agli ex detenuti è preclusa ogni possibilità di rientro nella società, laddove sarebbe necessario un lavoro di ascolto e di accoglienza (ben vengano i centri di recupero).
Ma il dovere al bene comune ci chiama, la vita di oggi ci dice che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male: abbiamo la più grande opportunità, quella di costruire ponti piuttosto che innalzare i muri.
Nella crisi ambientale, la nostra terra madre ci chiede rispetto e non violenza, in quanto ci è stata donata in prestito e dobbiamo restituirla in un buono stato. Bisogna dunque ricominciare a gustare le piccole cose, vivere di poco, abbandonare la mania del consumismo, dello shopping compulsivo. Ne sarò capace anch’io?
Prendere distanza da tutto ciò che non ci appartiene, che ci aliena. Dal disagio dell’uomo nella moderna civiltà industriale che lo fa sentire lontano dalle proprie radici naturali.
Perché chi parte per trovare una vita migliore, va in cerca della terra promessa, per una vita da sogno e lontano da ogni paura.